Erbetta, A. (2003). Pedagogia, fenomenologia e progettualità pedagogica. In Id. (Ed.), Senso della politica e fatica di pensare. Bologna: CLUEB. 57-59.
La prima, dunque, delle nostre domande: quand’è che l’educazione – o almeno ciò che qui si nomina come “educazione” – incontra la fenomenologia? E cosa significa, di conseguenza, parlare di “pedagogia fenomenologica”?
E di seguito la seconda: quand’è che la comprensione fenomenologica dell’educazione incontra, nel cuore dell’uomo, il luogo della politica come cifra ineludibile del destino soggettivo di ciascuno, tanto da costringerci a non poter pensare l’educazione stessa se non come a quel farsi dinamico – soggettivo e storico insieme – in cui ciascuno diventa “membro di una comunità”, e la pedagogia stessa, tutta la pedagogia – come diceva il grande Jaeger a proposito della παιδεία classica – diventa così “viva coscienza normativa di una comunità umana”?
[…]
Alla prima delle due domande si potrà rispondere solo se, tornando alle cose per cogliere in esse il senso che loro compete, noi si riconosca come il fenomeno educativo non è mai, per un verso, solo quel che ci viene gelidamente restituito dai diagrammi, paradossalmente astratti, affidati all’impersonalità statistica delle scienze esatte. Cosiccome, per converso, esso non consiste affatto nella rarefatta spiritualità di maniera che sgorga, compatta e dogmatica, dalle rassicurazioni, altrettanto astratte, di un quale che sia sistematicismo metafisico. L’, infatti, a essere messo in giuoco è semmai un “modellino di uomo” – e non l’uomo che siamo: un vero e proprio “modello di carta” che non trova nessun riscontro nella concretezza dell’esperienza di vita.
Laddove, nella sua veste di “esperienza vissuta dell’uomo in quanto cultura”, l’esperienza educativa riscopre sempre, invece, un uomo in carne ed ossa che, tramite il corpo-proprio torna a valere nella sua irriducibile soggettività.
Di qui, allora, una pedagogia fenomenologica che, per dirla in grana grossa, proprio perché polemicamente schierata contro quelle astrattezze teoretiche e storiche, ci si propone, al contrario, come pedagogia di una radicale soggettività.
Una soggettività non certo solipsistica, all’interno della quale, tuttavia, ciascuno di noi, prima di ogni altra cosa, si ritrova a tu per tu con se stesso, nella cerca di un orizzonte di senso della sua stessa vita a muovere dalla concretezza della sua situazione intramondana. Così scoprendola, o ri-scoprendola, la propria educazione, non già come sistema di coercizione sociale governato dalla confortevole e levigata non libertà dell’assimilazione e dell’accomodamento, travestiti magari da categorie psicosociali: bensì come “benigno scroscio di pioggia notturna” in grado – per dirla con l’oracolarità del Nietzsche delle Inattuali – di rimuovere “tutte le erbacce, le macerie, i vermi che insidiano i fragili germogli delle piante”.
Cosicché, contro la “menzogna pedagogica” che Nietzsche vedeva impegnata a rendere l’uomo “necessario, uniforme, uguale tra gli uguali, coerente alla regola e di conseguenza calcolabile”, possa valere, giustappunto, una educazione che, nel suo più largo significato, ci si mostri piuttosto – proprio perché “esperienza vissuta dell’uomo in quanto cultura” – come viaggio formativo verso il luogo di una interiorità – per dirla con Demetrio – in cui il soggetto compie l’esperienza della propria sovranità esistenziale.
Che è poi un altro modo di dire dell’educazione come radicale esercizio di libertà.
Qui allora, e con tutta evidenza, s’impone di conseguenza la risposta alla nostra seconda ingenua domanda […] Una domanda – beninteso – che ora, alla luce di ciò che si è appena detto può essere riformulata così: come sarà mai possibile che da un viaggio verso l’interno di noi stessi, in quella zona solitaria in cui ciascuno fa l’esperienza di uno spazio d’elezione conchiuso di cui è testimone solo la nostra coscienza individuale, come è possibile proprio lì incontrare l’urgenza ed il gusto di quella dimensione politica che a prima vista sembra avere a che fare, invece, con lo stereotipo della brutale strumentalità della forza e dell’estroflessione mondana della nostra volontà di potenza?
Ecco: in questo spazio ambiguo e contraddittorio, proprio in esso, sembra risiedere il felice segreto dell’umanesimo dell’Europa, forse tutto il suo spirito, il suo Geist. Perché se è vero che in questo viaggio entropico alla ricerca di se stesso, l’uomo trova, in chiave formativa, qualcosa di solido e di insuperabile, tutto questo non è altro che la scoperta dell’altro – dell’alterità – che vive in ciascuno di noi come la forma duale, antropologicamente originaria, del nostro esserci (Dasein) come Con-esserci (Mitdasein) – così come ci ha ricordato il grande Pietro Piovani. Una alterità che, nel dinamismo di limite ed ulteriorità, vive esattamente nel cuore del nostro teatro interno: quello stesso teatro in cui, tra immagine e rappresentazione – come direbbe Dallari – si gioca la partita della nostra intelligenza così come della nostra vita sentimentale.
Qui, infatti, l’altro mi costituisce originariamente, come ricchezza e come limite. Certo: esso potrà mostrarsi, ai miei occhi, come “traccia dell’Infinito” – così come vuole Lévinas – oppure, in virtù del suo sguardo indiscreto che m’inchioda alla mia cattiva coscienza, come vero e unico “inferno” che mi tocchi d’espiare, alla maniera del lucidissimo Sartre. In ogni caso non ci potrà essere soggettività vera – questo il punto – che non viva nello spazio, interno ed esterno, della relazione con l’altro.