Editoriale, N. 6 Nuova serie – Anno III 2007

Nel novero delle figure da indagare con rinnovata passione interpretativa per comprendere a fondo la cultura del nostro Novecento, quella di Antonio Banfi occupa certamente un posto di primissimo piano. Sia sotto il profilo filosofico che etico-politico, per non dire delle risonanze educative che il suo pensiero implica esplicitamente. Di qui la nostra gratitudine verso Fulvio Papi che ha scelto in prima battuta Paideutika per pubblicare in anteprima il suo intervento dello scorso Ottobre alla Casa della Cultura di Milano in occasione dei cinquant’anni dalla morte del filosofo milanese. Un intervento che ha accompagnato, per altro, la pubblicazione del suo volume Antonio Banfi. Dal pacifismo alla questione comunista (Como-Pavia, Ibis, 2007), ove, con più largo tracciato storico, si tornano comunque a decifrare, tramite la figura e l’opera di Banfi, le inquietudini e le responsabilità intellettuali, morali e politiche che, lungo tutta la prima metà del secolo scorso, hanno impegnato, anche sul piano dell’azione concreta, la parte migliore del nostro mondo culturale, quello più decisamente capace di interpretare in dimensione europea la crisi della modernità in funzione di una difesa e di un rinnovamento delle sue esigenze umanistiche.

Cosicché, se il saggio di Papi si fa stemma di questo nuovo numero di Paideutika, è altresì vero che – giunti in Redazione con lo stile amicale di chi apprezza la libertà di ricerca e la severità critica della nostra Rivista – lo scritto di Francesco Mattei su Edda Ducci e quello di Mario Gennari sulla tragedia classica, segretamente intesa nella sua permanente dimensione di formatività, ci consentono di ampliare a dismisura lo spettro che inerisce al rapporto, per noi fondamentale, di cultura e formazione. Il primo, in quanto la rievocazione di Edda – che è stata una delle nostre filosofe dell’educazione più intense e sincere – apre allo spazio di una riconoscenza critica che lei, scolara di Cornelio Fabro e d’impostazione altrimenti fenomenologica, ha per prima riconosciuta, con delicata e amicale umanità, nel segno di una lontananza intellettuale sempre colmabile con l’amore. Il secondo, in quanto – testimone di una esigenza di culturalizzazione a tutto campo che fa dell’indagine educativa un luogo, innanzitutto, di ripensamento del pedagogico in termini di Bildung – concorre, con queste sue pagine, a fare della classicità l’altro volto ineludibile di un impegno – in tal caso fine chiaro e penetrante – che all’indagine storiografica si rivolge per interpellare il senso concreto della nostra situazione storica, magari vista nelle sue drammatiche oscillazioni etiche e culturali. Ambedue, e in ogni caso, documentazione intensa di una moralità dell’apertura che, in contrasto con i pedagogismi correnti, chiede, prima di tutto, disponibilità all’ascolto e al confronto, i più spregiudicati possibili. Ma anche i più consapevoli di ciò che, in barba a quel che di sterile s’annida nelle prese di posizione accecate dal conformismo delle dislocazioni tradizionali, vale a dissodare, con sguardi diversi, il nostro comune campo di lavoro.

È grazie, dunque, a una sorta di strabismo erotico che, nella parte che riguarda gli studi e le esperienze – da una prima tematizzazione dei suoi vasti studi sulla filosofia nell’infanzia di Grazia Massara, all’impegnativo ripensamento weberiano del moderno che in Giuliano Gozzelino prende le mosse da una nota di apparente architettura industriale, per finire con la rilettura che, in corpore vili, Ferdinanda Chiarello ci propone riguardo a Itard e all’enfant sauvage de l’Aveyron – è a tutto ciò che si deve, egualmente, l’ethos confermato del nostro orizzonte critico.

Un orizzonte non già pensato – e qui si possono dunque menzionare anche l’esperienza di Daniela Viroglio in merito all’educazione ambientale e le righe del Direttore dedicate, nella sua Rubrica, al Sessantotto – in vista di una ennesima organizzazione dottrinaria dei saperi formativi, quanto piuttosto come piano di scomposizione e di ricomposizione dinamica delle infinite aperture di senso che ogni pedagogia come critica della pedagogia porta felicemente con sé.

A dirla tutta: non già come luogo di soluzione dei problemi, bensì come luogo di crisi, all’interno del quale i problemi vengono sollevati per un’opera costante di decostruzione critica degli ordini del giorno. E dunque in vista dell’unica vera possibilità di pensare. Che poi non è altro se non il volto, franco ed aperto, di una libertà a tutto tondo, dove ciascuno, a suo modo, si gioca il proprio destino con la responsabilità di cui è capace di portare il peso. Sapendo che, in chiave di coscienza pedagogica, egli, come si diceva un tempo, è in verità responsabile di tutto. E che neppure dinanzi alla più minuta pratica di lavoro egli potrà rifugiarsi nella breve e meschina cerchia di mondo che gli offre l’arroganza ipertrofica della sua presunta e specifica competenza.

Antonio Erbetta