Elena Madrussan

Editoriale N. 22 Nuova Serie – Anno XI 2015 – Contrappunti

Editoriale N. 22 Nuova Serie – Anno XI 2015 – Contrappunti

EDITORIALE

Dopo tanti fascicoli ‘monografici’, e quindi ordinati tendenzialmente secondo un orizzonte tematico, Paideutika ricupera più esplicitamente, con questo numero, il suo antico amore per i contrasti. I contrappunti che animano le pagine seguenti non hanno a che vedere con un discorrere plurale intorno ad un comune oggetto culturale, ma con la messa in scena di questioni, oltre che di approcci e di orizzonti, differenti. Un modo, questo, tutt’altro che inutile per leggere quegli sguardi sul reale in una duplice direzione: da una parte, in quanto forme che il rapporto educazione-cultura sta assumendo o potrebbe assumere, nei circuiti meno frequentati dall’omologante pervasività della cultura corrente; dall’altra parte, come giacimento di idee che Paideutika mette a disposizione di Autori e Lettori.

Così, se per Tognon si tratta di ripensare il rapporto tra etica ed estetica in educazione, in particolare attraverso l’urgenza di tornare alla dialettica tra realtà e pensiero per riconquistare il nesso forma/contenuto in direzione di una pedagogia come “scienza della vita”, il medesimo rapporto, quello tra estetica ed etica, torna, in forma d’arte, dalle mani pensose di Gabriele Lavia, che con il suo teatro lavora alla riconquista costante di una comunione tra attore e spettatore, dove il significato originario del teatro stesso, pur nella sua imprendibilità, possa essere, se non posseduto, almeno sfiorato sensorialmente.

Per altro verso, la dimensione comunitaria della vita collettiva pone, nello studio d’ispirazione rawlsiana di Passaseo, l’urgenza di un ripensamento più profondo del significato della laicità – e della giustizia – per contribuire a ridefinire il senso e le funzioni del cittadino, sollecitando così la riarticolazione dell’idea di educazione entro uno spazio di sempre più urgente secolarizzazione. Tema, questo, ripreso, in certo senso, anche da Papi, rispetto all’esigenza di comprendere il significato dell’essere o del sentirsi responsabili nel tempo dell’individualismo “feroce e rapace”.

Sul fronte dell’operatività pedagogica vissuta in presa diretta, si muove il resoconto di Baravalle: un’esperienza annuale di insegnamento in Francia diventa testimonianza – e magari avvio di uno studio più approfondito – di quanto la complessità dei rapporti tra approcci metodologici differenti possa costituire la vera e propria struttura normativa della quotidianità scolastica in esame e come lungo tale binomio si rischi di smarrire la costitutiva problematicità della formazione soggettiva.

Del resto, proprio alla formazione dell’io attraverso l’esperienza letteraria sono dedicati altri due contributi di questo fascicolo. Per Petrella si tratta di interrogare il più noto testo di Kundera – L’insostenibile leggerezza dell’essere – come vettore chiave dell’antinomia tra corpo ed anima. Un’antinomia che, tornata oggi di grande attualità, caratterizza così intensamente sia l’esperienza giovanile sia la consapevolezza adulta del mondo, secondo un itinerario di formazione identitaria dalla poetica lacerante. Per Friedrich, invece, si tratta di affondare lo sguardo nelle pieghe più difficili dell’esperienza collettiva tedesca, dove, attraverso Kruso di Seiler, ad emergere sono, per un verso, la legittimazione della scomparsa della DDR come autentico trauma e, per altro verso, la sua dolorosa ricomposizione nella memoria comune delle vittime.

È il pensiero di Louis Marin, infine, ad essere argomentato nel saggio di Aldo Trucchio, attraverso almeno due idee fondamentali: l’identità di ideologia e rappresentazione; l’iconografia autobiografica come espressione narcisistica del differimento infinito del proprio desiderio di assoluto.

In definitiva, allora, la silhouette di questo ventiduesimo numero rievoca senza alcuna forzatura, da più parti, secondo diversi gradi di maturità intellettuale, sotto svariati profili e con diversissimi approcci argomentativi, il bisogno – letteralmente – di ridescrivere le forme dell’etica, siano esse quelle dell’etica individuale o sociale, siano esse mediate dall’estetica, dalla espressività del lavoro di rappresentazione, collocabili nell’esperienza della morale corrente o negli apparati delle istituzioni.

Ecco, allora, che rispetto al basso gradiente d’intensità della cultura diffusa, oramai prevalentemente impegnata a indovinare le misure di problemi che ha smesso di comprendere, non resta che entrare nel merito delle questioni poste per ritrovare il filo di un discorso che cerca nella forza salvifica dei contrasti una possibile chiave di lettura.

E.M.

 

 

In riferimento al peer review process Paideutika ringrazia Giuseppe Annacontini, Gaetano Bonetta, Michele Borrelli, Franco Cambi, Enza Colicchi, Mino Conte, Maurizio Fabbri, Mariagrazia Margarito, Giancarla Sola, Hans-Christian Stillmark, Ignazio Volpicelli, che, con responsabilità e competenza, hanno valutato i contributi pubblicati nel 2015.

 

Pubblicato su: Contrappunti, N. 22 Nuova Serie – Anno XI 2015

Editoriale N. 21 Nuova Serie – Anno XI 2015 – Senso e azione in educazione

Editoriale N. 21 Nuova Serie – Anno XI 2015 – Senso e azione in educazione

EDITORIALE

Se c’è una questione che emerge con continuità dai contributi che compongono questo secondo fascicolo dedicato al rapporto tra senso e azione è quella del nesso che, in educazione, le lega. Al di là delle dichiarazioni di principio che, in quanto tali, negano alla discorsività interrogante qualsiasi forma di argomentazione critica, espressioni come praticare il senso o il senso delle pratiche vengono correntemente utilizzate da certa letteratura pedagogica come passepartout funzionali all’autolegittimazione formale. Tanto da potersi sostituire l’una all’altra senza difficoltà, quasi che prassi, azione e pratiche fossero sinonimi privi di una propria storia semantica, allo stesso modo di senso, teoria e razionalità esplicativa.
Eppure, se non è difficile intendere come il senso non possa mai essere un’entità a sé da poter tradurre in azione e se è altrettanto intellegibile che il senso delle pratiche è (o non è) nelle pratiche concrete – e quindi non è possibile descriverne i contorni se non descrivendo le pratiche nelle situazioni circostanziate in cui esse hanno avuto luogo –, allora bisognerebbe partire da un diverso presupposto. Ed è quello che, in questo numero di Paideutika, in maniera trasversale, è accaduto.
Se tale questione pedagogica pare ancora – finora – davvero troppo trascurata è forse per il fatto che essa chiama in causa ripensamenti radicali. Il presupposto, infatti, è divenuto quello che il senso possa non esserci. E che simile possibilità non debba essere liquidata.
Intanto perché, come ricorda Rita Fadda, l’esistenza di per sé non contempla affatto il senso tra i suoi tratti costitutivi. Anzi: l’esistere, semmai, genera il pathos della mancanza, fino a fare della tensione patica stessa il senso dell’agire e dell’esistere. E di un agire, in particolare, che proprio a quella tensione vuole rispondere, con piena consapevolezza della responsabilità che ciò implica.
In secondo luogo perché, come vuole Mottana, l’idea che il senso abiti il ‘prima’ o il ‘dopo’ l’accadere dell’evento può essere un grave pregiudizio. Laddove, invece, a restituire contenuti al senso sembra proprio essere l’imprevedibilità dell’evento e il suo mutare costante, rispetto al quale, allora, andrebbe educativamente recuperata l’“adesione” all’evento, diventando “degni di ciò che accade”.
In terzo luogo perché, con Elsa Maria Bruni, la questione del senso fa leva sull’idea stessa di educazione in quanto relazione intersoggettiva. E se fare i conti con tale relazione significa soprattutto fare i conti con l’imprevedibilità del possibile e con la contingenza trasformativa della storia e della società, allora va anche riconosciuto che “la significatività dell’educere” non può che abbandonare quei connotati che tradizionalmente siamo avvezzi ad attribuirle.
Per queste ragioni – e per le molte altre che ancora sarebbero possibili –, alla luce di un nesso tra senso e azione che può anche mancare, non possono stupire quei precipitati contingenti di azione educativa che, in diversi contesti operativi, diventano sintomi di una insufficienza. Come nel caso del riproporsi cogente del problema della coercizione in psichiatria, per il quale, grazie all’analisi di Elvezio Pirfo, risulta evidente come l’imposizione di un senso ex ante, per esempio di natura giuridico-legislativa, rischi di mancare il fondamentale bersaglio sia della cura sia della garanzia.
Allo stesso modo, quando l’istituzione scolastica diventa, come ritiene Ferdinanda Chiarello, il banco di prova di una – sia pur ‘sensata’ – intenzione politica, anziché essere il risultato di un nesso stringente tra esistenza e cultura, allora la deriva di una “scuola in crisi” sembra sempre meno arginabile. Non che in ambito universitario accada qualche cosa di diverso quando, come sostiene Asger Sørensen riferendo di un emblematico caso danese, si scontrano due idee inconciliabili di cultura e di formazione.
Così, come i nostri Lettori sanno da tempo, la portata paradossale di un’etica formativa vincolata alla scelta conduce, con le riflessioni di Vasco D’Agnese a proposito di Heidegger e di Gadamer, ad una responsabilità pedagogica radicale.
La stessa responsabilità che ha voluto prestare attenzione, con questi due numeri che commentano lungamente il primo decennio di vita di Paideutika, alle possibili conseguenze di una perdita – quella del senso – tanto dirompente per l’agire quotidiano quanto benefica per una rinnovata riflessione sulle fenomenologie attuali del senso e del non-senso.

Elena Madrussan

Editoriale, N. 20 Nuova Serie – Anno X 2014 – Senso e azione

N. 20 Nuova Serie – Anno X 2014 – Senso e azione

 

EDITORIALE

 

Indubbiamente la preparazione del ventesimo numero di Paideutika è stata un’occasione inusuale di riflessione, che ha preso avvio più di un anno fa e che oggi, con l’uscita di questo numero e del prossimo, mette alla prova i suoi esiti. Dieci anni di lavoro non sono, per una Rivista, un tempo irrilevante, ma sotto quale segno marcare un appuntamento tanto importante?
Sono stati molti i modi presi in considerazione dalla Redazione per far luce su questo tempo e nessuno di essi si è voluto sottrarre all’esplicitazione di una linea di continuità tra passato, presente e futuro. La stessa linea che, a ben vedere, ha attraversato in filigrana ogni fascicolo pubblicato.
Interrogarsi sul senso – e sulla sua eventuale assenza – in rapporto all’azione può sembrare un azzardo. E non solo perché, com’è ovvio, la domanda è, nella sua immensità, stracarica di storia e di pensiero, ma soprattutto perché essa corre il rischio, oggi, di suscitare afasia o perplessità. Eppure: non è forse proprio la dotazione di senso dell’agire ad essere, nel contempo, una esigenza imprescindibile, forse tra quelle più sentite della quotidianità contingente? Non è proprio in quel rapporto, piuttosto che nell’attenzione astratta ad uno dei suoi due termini, una delle radici indispensabili non soltanto alla vita di cultura, ma all’esistenza stessa? È, infatti, esattamente a partire dalle condizioni del nostro tempo, quello della (apparente) dissoluzione dei paradigmi usuali, dei profondi mutamenti della vita sociale, politica e culturale, del trionfo del pensiero calcolante, i cui linguaggi e le cui pratiche assediano l’esperienza individuale del mondo, che non è forse inutile restituire visibilità ad una domanda fondamentale: quali significati può assumere, oggi, l’agire?

Oppure, detta in altri termini, quale consapevolezza viene ancora messa  in gioco rispetto al senso del proprio essere-nel-mondo? E, ancora, come è possibile agire – altra cosa dal ‘fare’ e dall’‘eseguire’ – senza perdere di vista una prospettiva complessiva? Ad aiutarci in questa direzione, declinando differenti articolazioni alla medesima domanda, sono figure di grande rilievo della nostra scena culturale, cui siamo davvero grati per la loro generosità compartecipe e che, ciascuno per il suo specifico campo d’esperienza e d’azione, ci regalano, in questa occasione, altrettanti spaccati di resistenza, volta a volta al senso comune, alla metafisica del ‘valore’, all’assioma dell’utile o alle fughe edonistiche.

Così, privilegiando una forma di scrittura breve e ‘diretta’, lo spettro delle azioni prese in esame va dal senso originario della scrittura per Carlo Sini a quello, troppo spesso dimenticato, dell’agire quotidiano per Fulvio Papi; dalla perdita di senso e di consenso dell’azione politica letta da Andrea Ranieri, alla incidenza di fattori come l’“innovazione conservativa” e la “cronotecnica” nello smarrimento della continuità temporale del senso secondo Fabio Merlini, fino alle ‘digressioni’ di Claudio Canal sulla presa sociale dell’educazione nella realtà virtualizzata del nostro tempo.

A mo’ di corollario felicemente inscrivibile nel raggio del tema in questione è l’inedito di Antonio Erbetta sull’idea di “azione reciproca” nel pensiero di Georg Simmel come “forma dell’esperienza educativa”. Ulteriore appendice è la preziosa lezione di Luce Irigaray, opportunamente
introdotta da Elvira Bonfanti, sull’identità sessuale, in cui la notissima studiosa francese della differenza qui descrive rinnovate forme di opposizione a concezioni stereotipate della relazione amorosa. È poi grazie a Fouad Laroui – economista e scrittore marocchino naturalizzato olandese, vincitore, recentemente, del Prix Goncourt – che lo sguardo letterario e ‘straniero’ su Amsterdam restituisce senso e misura all’abitare e al vedere.  Tutto in attesa del prossimo fascicolo, il primo del 2015, in cui il lavoro proseguirà nella medesima direzione, setacciando, in particolare, a proposito della relazione tra senso e agire, le forme più proprie della cultura educativa. A testimoniare, con ciò, la continuità dell’impegno di Paideutika.
Quanto al felice esito di questo azzardo, invece, saranno, semmai, i Lettori a darne testimonianza. Intanto a loro, ai Collaboratori, agli Autori, ai Consulenti Scientifici e all’Editore vanno i ringraziamenti più sentiti di tutta la Redazione e della sottoscritta per questi primi, intensi, dieci anni.

Elena Madrussan

 

In riferimento al peer review process Paideutika ringrazia Paolo Bertinetti (Università di Torino), Elvira Bonfanti (Università di Genova), Gabriella Bosco (Università di Torino), Franco Cambi (Università di Firenze), Gabriele Scaramuzza (Università Statale di Milano), Chiara Simonigh (Università di Torino), Massimiliano Tarozzi (Università di Bologna), Maria Tomarchio (Università di Catania) che, con responsabilità e competenza, hanno valutato i contributi pubblicati nel 2014.

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Editoriale, N. 19 Nuova Serie – Anno X 2014 – Poetiche del gesto

N. 19 Nuova Serie – Anno X 2014 – Poetiche del gesto

 

EDITORIALE

Dall’estensione delle “geografie del corpo” alla essenzialità delle “poetiche del gesto”, il rapporto tra soggetto e mondo passa attraverso gli infiniti significati del movimento. In questo numero Paideutika guarda al gesto intendendolo ora come movimento minimale inconsapevole ora come emblema di un’espressività cercata: dalla gestualità più abituale alla prossemica codificata, dai segni di riconoscimento individuale ai paradigmi espressivi di un’arte.
Per questo, nella consapevolezza che l’abitudine sa bene come tradire la conoscenza, vale forse la pena di ripercorrere le tracce lasciate da alcuni di quei gesti, osservandoli da un’angolazione che li renda meno scontati per tornare ad essi con rinnovata attenzione. A cominciare da quel movimento corporeo che, secondo Semerari, va dalla espressività necessaria a quella profonda, in cui il volto, lo sguardo e la voce diventano epicentri dell’autentico: veri e propri linguaggi capaci di modellare (anche eticamente) l’espressione verbale. Per proseguire, poi, con tutt’altre parole che dicono il gesto, come nello studio di Margarito, dedicato alla lessicografia del corpo e, in particolare, alle azioni del camminare e del correre, interpretate, nelle loro varietà d’intenzione, anche come modalità di ‘scrittura’ della propria soggettività.
Sul piano simbolico ed artistico, poi, il ruolo privilegiato del gesto nella danza – o della danza sul gesto – è sicuramente una chiave di comprensione culturale da riesplorare. Per questo, mettendo a confronto i paradigmi della danza classica occidentale e orientale, Guzzo Vaccarino mostra come la gestualità danzante sia uno degli strumenti culturali più ricchi per la trasformazione degli archetipi (universali) di bellezza. Del resto anche la gestualità messa in scena dall’attore – e di quello del Tarkovskij letto da Dimitri in particolare – ha una funzione decisiva sia per la rappresentazione iconografica di un’idea sia per la costruzione dell’immaginario nello spettatore.
Per altro verso, il movimento itinerante, quello materiale che attraversa i continenti e quello scritturale che li descrive e rappresenta, lascerà, allora, aperte e libere le strade della ‘nuova’ letteratura ‘non accademica’, in cui posture gestuali davvero altre, moltiplicate per le culture dei Paesi d’origine degli Autori presi in esame da Vezzaro, producono, anch’esse, poetiche ben più articolate e polimorfe rispetto a quelle consuete.
Senza dimenticare, nel ventaglio delle esperienze gestuali, quelle varianti del movimento corporeo che, lontane dall’arte, provengono dalle mosse immaginate, immaginarie o immaginabili in ambito terapeutico, come nel caso del Bettelheim proposto da Calvetto o degli interventi di supervisione educativa su cui lavora Bosco. Due contesti radicalmente differenti, questi, che, tuttavia, si rivelano prossimi rispetto ai rischi di una corporeità mal interpretata. Nel primo caso ad emergere sono le conseguenze pedagogiche della “perdita dell’anima” (Seele), impoverita dalla sua impropria sovrapposizione con la ‘mente’ e per questo orfana di una intera gamma di rappresentazioni del rapporto tra individuale e sociale. Nel secondo caso, all’interno di un contesto di supervisione educativa su pazienti psichiatrici, a farsi largo sono le contraddizioni fuorvianti che provengono da una concezione del gesto di cura e della corporeità del paziente nella dimensione esclusiva della ‘riparazione’.
Se è vero, però, che a decidere la cifra delle cose è sempre lo sguardo di chi le osserva, le variazioni sul tema qui proposte non fanno che suggerire ulteriori ‘poetiche del gesto’ da esplorare per proprio conto. Fino a costruire, se ci si riesce, il proprio piccolo e modestissimo compendio all’idea nietzscheana che “la trasformazione del gusto collettivo è più importante di quella delle opinioni”.

Elena Madrussan

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Editoriale, N. 18 Nuova Serie, Anno IX 2013 – Geografie del corpo

N. 18 Nuova Serie, Anno IX 2013 – Geografie del corpo

 

EDITORIALE

 

Ritornare sulla questione della corporeità, ad un decennio circa dalla sbornia culturale che ha attraversato gran parte della cultura umanistica italiana, vuol essere, insieme, un tentativo e un invito. Il tentativo è quello di continuare a render conto di quanti e quali luoghi – esperienziali, semantici ed interpretativi – la corporeità inesorabilmente convoca. Come fossero – e forse sono – altrettante ‘geografie’ del senso che, in quanto tali, moltiplicano all’infinito gli sguardi, i linguaggi, i paesaggi possibili, e che, per ciò stesso, rendono risibile l’ipotesi che il rapporto tra soggettività e corporeità possa essere confuso con una moda. Che poi in proposito molto sia stato detto e scritto, non sembra affatto minacciarne la ridiscussione critica, né, tantomeno, l’oscuro e l’intentato che la riguarda. Piuttosto il contrario: la nonchalance con la quale la materia sensibile dell’essere-corpo può ridursi nuovamente, dopo tanto interrogarsi, ad epifenomeno, sembra invece invocare l’urgenza di denunciarne l’archiviazione liquidatoria e farsi appello a ripensarne i contenuti.
Per le stesse ragioni, tuttavia, se il tentativo di ‘rendere conto’ non potrà che essere parziale – la questione è irrinunciabile ma immensa, in ogni sua rifrazione e sutura culturale, tanto da impegnare idealmente molte vite –, la denuncia potrà forse valere almeno come invito a guardarsi dal
rischio, più che contingente, del sorvolo. 
In questo numero, quindi, le geografie del corpo possono intendersi sia come territori da attraversare “sempre di nuovo” sia come dislocazioni spazio-temporali di una questione – quella della e sulla corporeità, appunto – la quale, nonostante tutto, ricorre in differenti ambiti culturali, circostanze storiche e paradigmi di significato. Ecco perché dall’auto-posizionamento soggettivo e filosofico di Jean-Luc Nancy, qui letto da Calabrò  nel solco della “dismisura del corpo”, passando attraverso la coincidenza tragica del limite e dell’assoluto nella danza macabra del Genet più inatteso, interpretato da Elvira Bonfanti, fino all’ironia dissacrante e nichilista della quotidianità anatomica ispezionata da Millás secondo la densa restituzione che ne dà Mininni, il piccolo quadro dei Saggi allude già ad una pluralità inequivocabile di posture interpretative.
Così, se le pagine dell’Archivio della memoria, tra le infinite possibili, riconvocano un Ernst Bloch alle prese con il rapporto tra medicina e pianificazione – in cui narcotici, antisettici, amputazioni, balsami e perfino la rappresentazione collettiva del medico, non fanno altro che alimentare l’utopia reazionaria dell’invulnerabilità –, allora le osservazioni di Fulvio Papi sembrano restituire all’attualità di senso – a partire da un pretesto tanto minimo quanto sintomatico – lo stesso, ricorsivo, problema del desiderio malato di governare l’ingovernabile umano.
Convergono poi sulla medesima destinazione teorica ed esperienziale i contributi di Giachery e di Gregorino. Dove nel primo caso la focalizzazione del rapporto tra biopolitica e pedagogia – con e oltre Foucault – consegna alla riflessione educativa una chiave interpretativa ancora sorprendentemente inedita relativa alla pervasività del controllo sociale. E dove, nel secondo caso, la concretezza materiale dei “soggetti incorpati” oggetti di cura mostra con precisione la delicatezza inaudita del problema. In questa chiave, il documentato lavoro di Scaramuzzo, esplorando il “punto vivo” pirandelliano e individuando nel mistero il baricentro educativo di una possibile salvezza dalla contingenza soggettiva, apre ulteriormente il campo prospettico.
Un punto d’osservazione, dunque, quello di questo numero, in cerca di sguardi plurali e radicalmente differenti, che approdano infine in territori simultaneamente vicini e lontani, come quelli del Quijote. Territori in cui, grazie a Bernat Vistarini, sia possibile assaporare, magari nella postura del cavaliere, ancora una volta, il gusto dell’umana miseria e della dignità.

Elena Madrussan

 

In riferimento al peer review process Paideutika ringrazia Giancarlo Depretis (Università di Torino),
Rita Fadda (Università di Cagliari), Enrica Lisciani Petrini (Università di Salerno), Alessandro Mariani (Università di Firenze), Riccardo Morello (Università di Torino), 
Paolo Mottana (Università di Milano-Bicocca), Francesco Mattei (Università di Roma Tre), Massimiliano Tarozzi (Università di Bologna) che, con responsabilità 
e competenza, hanno valutato i contributi pubblicati nel 2013.

 

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Editoriale, N. 17 Nuova Serie – Anno IX 2013 – Per un’educazione come critica dell’educazione

N. 17 Nuova Serie – Anno IX 2013 – Per un’educazione come critica dell’educazione

 

EDITORIALE

 

Perché, oggi, pensare l’educazione “come critica dell’educazione”? In che senso rintracciare nel binomio crisi-critica l’eredità intellettuale forse più pervasiva e profetica di Antonio Erbetta?
Quando il 30 e 31 Marzo 2012 si è svolto a Torino il Convegno di studi pedagogici in suo onore, promosso dall’allora Facoltà di Lingue e Letterature Straniere e dall’allora Dipartimento di Scienze dell’Educazione, a caratterizzare l’iniziativa è stata la convinzione che il miglior modo per rendergli davvero omaggio fosse tentare di continuare a fare della vita di cultura – come lui stesso ha più volte sottolineato – l’occasione privilegiata di una riflessione limpida e aperta, al servizio della comprensione del nostro tempo. Un’idea, questa, che tutti i convenuti, dai relatori ai partecipanti agli organizzatori, hanno vissuto come testimonianza dell’esigenza antiretorica di ricordarne l’impegno lavorando ancor più intensamente al proprio.
Così, a radunare alcune tra le più significative voci della cultura pedagogica italiana è stata la possibilità di riflettere attorno all’idea di “educazione come critica dell’educazione”, che non solo è il frutto forse più noto della riflessione pedagogica di Antonio Erbetta, ma che ha anche permeato radicalmente tutto il suo lavoro intellettuale: quello contenuto nei suoi libri, quello di professore, quello di interprete dei mutamenti sociali, quello di organizzatore culturale ed anche, per molti versi, quello di fondatore e Direttore di Paideutika.
Un tema, peraltro, particolarmente attuale perché carico di interrogativi e di orizzonti possibili. Non a caso, gli studi ospitati in questo numero di Paideutika, che felicemente raccoglie gli esiti di quell’occasione culturale, ne restituiscono tutta la poliedricità di senso, catturata sia nella tensione etico-culturale del lavoro interpretativo sia nell’atmosfera rammemorante che, più o meno sottotraccia, ne colora gli sfondi.
Tanto che la portata di senso della critica in educazione, sia essa intesa come riflessività non adesa al senso comune o alle pratiche correnti, sia essa colta quale ‘snodo critico’ del percorso formativo soggettivo, si declina nelle molte forme argomentative e tematiche affrontate nei saggi: dai possibili significati della ‘critica’ in pedagogia e dalla necessità costante del ripensamento ermeneutico suggeriti da Cambi, al permanente confronto tra ideale e reale nell’utopia, analizzato da Colicchi quale matrice del principio di decisione e del principio di realtà in educazione; dal processo formativo inteso come atto politico il quale, nella riflessione di Spadafora, concentra in sé la finalità ultima della stessa pedagogia, oltre che dell’agire libero e responsabile del soggetto-persona, al rischio di alterare, di rimuovere o di “anestetizzare” la forza generatrice del polemos dai processi educativi che, secondo Mantegazza, finisce per produrre conflittualità ingovernabili. Allo stesso modo, è nell’invito di Gennari a tenere uno sguardo criticamente diffidente sulle definizioni della nostra contemporaneità che la formazione dell’uomo opera in funzione di un ‘vedere’ che sia innanzitutto e soprattutto un ‘pensare’. Così come la riflessività proposta da Contini in stretta connessione con l’empatia diventa la possibilità di costruire una relazione educativa capace di restituire all’altro la problematicità della sua stessa libertà. Ma il pensare come azione critica del soggetto e dell’educazione può essere colta nelle sue rifrazioni più radicali anche nell’esperienza del limite, tanto significativa per Erbetta, e ripercorsa da Mottana come necessario “salto di prospettiva”. Forse per questo, tra l’altro, il rapporto tra fenomenologia dell’esperienza e della realtà viene a configurarsi, secondo Tarozzi, come spazio della domanda e della ricerca, sia esso il luogo esistenziale di esercizio dell’intelligenza curiosa o quello interpretativo della dimensione empirica e descrittiva dell’educare.
E se in definitiva tutti questi temi s’intrecciano inesorabilmente tra loro, a farne da collante è certamente la questione etica. La quale, ripercorsa storicamente da Volpicelli, pone all’agire educativo e al pensare pedagogico l’urgenza di riprofilare nell’attualità di senso una prospettiva pienamente e consapevolmente determinata, oltre che a farsi carico, responsabilmente, della problematicità delle origini dell’etico tanto quanto delle conseguenze che l’agire etico-educativo ha sul futuro. Del resto, sulla medesima falsariga si muovono anche le Rubriche e le recensioni di questo numero. Nelle parole di Italo Bertoni, cui è dedicato l’Archivio della memoria, vi è non solo la ricostruzione lucida e disincantata delle ragioni della fine di un’epoca, ma anche – e per noi soprattutto – l’istanza morale di un reale decentramento da sé e dalle proprie rassicuranti visioni del mondo. Nel ricordo di Fulvio Papi è sensibile la tensione tra l’attuale disperante situazione economico-sociale e l’esigenza educativa di resistere alla sua stupida asseveratività. Dal percorso di formazione evocato da Magnoni emerge l’urgenza critica di continuare sempre a fare dell’operatività pedagogica l’occasione concreta di ripensamento e di reinvestimento del ruolo formativo ed esistenziale dei soggetti coinvolti. E a regolare lo studio di Friedrich sullo spazio e sui suoi margini è l’esigenza di riconsiderare autocriticamente le sedimentazioni culturali e percettive eurocentriche a cui finiamo troppo spesso per aderire, anche ideologicamente. Tutte questioni, come si vede, che, nell’ampio arco di temi, letture, esperienze, memorie, finiscono per cogliere appieno, tra le infinite sfumature del possibile, quell’eredità critica di cui si diceva. Un’eredità culturale e umana per la quale è valsa, allora, la pena di curvare l’attenzione interrogante di ciascuno sin all’estremo limite dei propri dintorni vissuti. Fino a fare di questo numero monografico un’ulteriore occasione, per Paideutika e per i suoi lettori, di impegno critico e di proposta culturale.

Elena Madrussan

 

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Elena Madrussan, At the beginning: the educational bet

Elena Madrussan, At the beginning: the educational bet

 

Starting from the idea of “education as criticism of education”, formulated by Antonio Erbetta, and from the idea of bet, stolen from Pascal’s famous warning, this essay faces the need to consider education as ethic and intellectual commitment. A commitment that is capable to cope either the unexpected and the unfinished which inexorably characterize the existence, or the cruel hypocrisy of simplifying and abstractly rationalizing everything about education. In this sense, the educational bet refers to an education that, as existence, becomes criticism of itself.

 

Elena Madrussan (University of Torino)

 

Published on: For an education as criticism of education N. 17  New Series – Year IX 2013

Editoriale, N. 16 Nuova Serie – Anno VIII 2012 – Intellettuali Educatori

N. 16 Nuova Serie – Anno VIII 2012 – Intellettuali Educatori

 

EDITORIALE

 

Tra le molte articolazioni possibili del rapporto tra formazione e potere quella relativa al ruolo dell’intellettuale non è certo né la meno importante né la meno problematica. Se Élémire Zolla, nel suo Eclissi dell’intellettuale, individuava le ragioni della pericolosità dell’intellettuale in quella “capacità di diagnosi che è consentita dall’elasticità non specialistica dell’educazione” e se, da allora ad oggi, proprio quell’umanismo aspecialistico è stato il bersaglio privilegiato di tanto razionalismo economicistico, allora vale forse la pena di riprendere la questione. Magari a partire dalla critica alla “barbarie dello specialismo” denunciata da Ortega y Gasset e qui riproposta nelle pagine di Archivio della memoria. Una critica utile non tanto alla discutibile individuazione, oggi, di una rinnovata identità dell’intellettuale, né a squadernare la galleria delle sue inesorabili ambiguità, né, ancor meno, a denunciarne malinconicamente l’assenza, quanto, piuttosto, a tentare di ripercorrere quell’etica della responsabilità insita nel “lavorare a livello di evento per produrre eventi concreti”. Infatti, questa era, per Sartre, l’unica attività possibile dell’intellettuale: l’impegno concreto di colui “di cui gli altri dicono che si occupa di ciò che non lo riguarda”. Con ciò, per Paideutika, si tratta di cogliere la tensione tra impegno intellettuale ed educazione nel lavorìo di smascheramento e di creazione dell’evento. Una tensione costituita dalla fatica paradigmatica di far accadere un’alterazione dello sguardo e della sua sintassi. A dire che, semmai, la funzione dell’intellettuale non sta tanto nella propria ri-codificazione, quanto nella sua capacità – educativa – di stanare i luoghi retorici della parola per accentuare la nuda materialità delle condizioni storiche che essi vorrebbero nascondere.

Di qui, allora, le diverse proposte di questo numero: dagli strappi e dai legami che fanno di un itinerario di studio – quello di Canevacci – la chiave di comprensione etnografica di sé e dell’altro nel difficile rapporto tra istituzionalità del sapere ed esperienza del conoscere, all’indagine sociale e civile del cinéma vérité inaugurato da Morin e Rouch, di cui Simonigh mostra la curvatura testimoniale e formativa attraverso l’acutezza (anche drammatica) di una giovinezza in mutamento. Oppure: dalla dirompenza performativa utilizzata dall’Internazionale
Situazionista come esercizio critico su una quotidianità deliberatamente deformata dall’alienazione produttiva, letta da Berlantini in quanto azione  (anti)pedagogica, alle parole-indizio che hanno fatto della riflessione di Derrida, ben al di là della stucchevole rappresentazione sloganistica che se ne è data, la dimostrazione di come un filosofo possa agire pensando. Dove lo studio di Pinciroli, nella fattispecie, intreccia aspetti politici – democrazia e salvaguardia dell’alterità, per esempio – e motivi filosofici – opposizione metafisica e semantica della scrittura – in una fucina di parole che pare costruita apposta per albergare nel soggetto “a-venire”. Senza trascurare – anzi: tenendolo come sfondo complessivo – il peso che ha, da qualsiasi angolazione la si voglia vedere, l’impronta del potere economico-sociale e politico – e del suo linguaggio in particolare – sui processi educativi di cui Papi, anche dalle pagine della sua Rubrica, si fa interprete e di cui richiama l’attenzione sugli effetti sociali e culturali. 
E via via, fino alle curvature solo apparentemente più attese di due figure-chiave d’intellettuale. La prima, quella dell’accademico, impersonata qui da Pietro Chiodi, viene sagacemente sottratta da Cesare Pianciola alla ovvietà dei paradigmi che usualmente la vorrebbero descrivere: un Chiodi forse troppo trascurato, che, tra aule e fucili, ha invece dato corpo e vita ad una vera e propria pedagogia del possibile attraverso “i molti modi in cui fu maestro”. La seconda, quella dell’intellettuale ‘scomodo’, che riconosce in Pier Paolo Pasolini, oltre al profetico poeta del nostro tempo, il meno noto viandante che, secondo Massara, tra chilometri macinati e metafore messe in scena, ha battuto soprattutto le strade di un’educazione ‘periferica’ tenacemente attenta alle pieghe di un’umanità inattesa e generosa. 
In cammino, del resto, sembra essere anche la “voce di Saramago”, nelle cui risonanze Depretis sente l’eco del viaggiatore cantato da Machado.
Quello, straziante ma liberato, che può trovare sollievo dalla crudeltà del male soltanto e sempre nel suo andare. Il tutto con l’idea che questi percorsi intellettuali dell’educare possano forse valere come strumentario metodologico di critica del reale, evocando essi stessi alcuni modi dell’agire e del pensare che fanno della formazione l’esercizio di un potere extra-ordinario.

Elena Madrussan

In riferimento al peer review process Paideutika ringrazia Orietta Abbati (Università di Torino),
Paolo Bertinetti (Univerità di Torino), Gabriella Bosco (Università di Torino), Enza Colicchi (Università di Messina), Mariagrazia Contini (Università di Bologna), Rita Fadda (Università di Cagliari),
Antonio Genovese (Università di Bologna), Paolo Mottana (Università di Milano-Bicocca), Gabriele Scaramuzza (Università Statale di Milano), Ignazio Volpicelli (Università di Roma Tor Vergata) che, con
responsabilità e competenza, hanno valutato i contributi pubblicati nel 2012.

 

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Editoriale, N. 15 Nuova Serie – Anno VIII 2012 – Logiche di dominio

N. 15 Nuova Serie – Anno VIII 2012 – Logiche di dominio

 

EDITORIALE

 

Che ad essere chiamati in causa siano i termini etico-politici o quelli esistenziali, gli ordini del linguaggio o le scomposizioni sociali, il rapporto tra potere e formazione sembra convergere su un’urgenza: quella di scandagliare “sempre di nuovo” la scena storico-culturale che ci si para innanzi. Come altrettanti segnali di una tensione tra sofferenza e riscatto – o tra emergenza e permanenza – le radici della lunga “rottura di faglia” che stiamo vivendo attingono alimento ben lontano dalla pianta, dimostrando, se ancora ce ne fosse bisogno, quanto siano estesi e diseguali gli orizzonti di ciò che chiamiamo ‘logiche di dominio’. Perciò questo numero di Paideutika tenta di reperire i sintomi e i significati che, in differenti ambiti, descrivono la problematicità stessa del tema in questione.

Così, il privilegio di ospitare la prima traduzione italiana (con testo a fronte) del fondamentale saggio di Arnold Davidson che, da allievo e studioso di Michel Foucault, mette in luce alcuni snodi decisivi per comprendere come operano i “giochi (discorsivi) del potere”, funge da pretesto per dislocare lo sguardo su altri scenari cruciali. Dal saggio di Ada Lonni che, descrivendo le voci “plurali” di dominio e di libertà che agiscono sul territorio palestinese, ne restituisce, insieme, una rappresentazione emblematica e un problema cogente nella debolezza dell’apparato  educativo, lacerato e faticosamente in cerca della propria identità; a quello di Davide Zoletto che, convocando un episodio apparentemente marginale del magistero di Michel de Certeau, ne scova “traiettorie” e “tattiche” possibili per uno “spazio di intervento pedagogico” sui rapporti di forza istituzionali. 

Allo stesso modo, se lo studio di Mantegazza e Persico sui gruppi rom e sinti in Italia oggi consegna all’attenzione del lettore la complessità di esperienze educative passate e recenti che certificano la necessità di ripensare più complessivamente i rapporti strategici tra pedagogia e politica, i testi di Pomi e Gozzelino insistono, seppure con approcci e bersagli differenti, sul fronte di un’antropologia esistenziale del potere. Il primo, in dialogo con alcuni decisivi imprestiti del Fondatore della Rivista, lascia emergere le declinazioni dell’educazione come potere nello spettro delle possibilità e delle impossibilità esistenziali; il secondo interroga la contemporaneità antropologica alla luce del binomio democrazia/scuola, originariamente concepito come fulcro della modernità sia in quanto atto costituzionale sia in quanto luogo funzionale alla formazione di una Weltanschauung democratica.  

I contributi delle Rubriche, allora, si inscrivono coerentemente in uno scenario mosso, evocando ulteriori quadri semantici: se Archivio della memoria mobilita la straordinaria capacità penetrativa di Frantz Fanon che, tra colonizzato e colonizzatore, ha visto e mostrato la forza persuasiva del dominio, Fulvio Papi, in Oggi un filosofo, smaschera, con la consueta sapienza, l’illusione ideologico-performativa che risiede in un’“educazione alla produttività” di matrice economica. Un tema, quello della performatività economica, che rimane centrale anche nei nostri Sguardi sul mondo, in cui David Nowell-Smith esplora le forme dell’impegno politico nella poesia britannica dell’ultimo decennio. Fino ad accogliere le suggestioni educative dei laboratori di scrittura di ITER e, non ultime, quelle che emergono dalle recensioni, attente, come sempre, ad intercettare tracce, raccordi, luoghi limitrofi della nostra scena culturale. Una galleria di proposte e di sguardi, dunque, innestata sull’idea che le logiche di dominio siano, simmelianamente, altrettante forme di azione reciproca.

Altrimenti? Non resterebbe forse che il rischio della hybris di certune posizioni oracolari, almeno quando esse tentano di far convergere la problematicità dell’esperienza in una sintesi circostanziata e programmatica, sempre più lontana dalla consistenza storica della realtà.

Elena Madrussan

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Editoriale, N. 14 Nuova Serie – Anno VII 2011 – Potere e formazione

N. 14 Nuova Serie – Anno VII 2011 – Potere e formazione

 

EDITORIALE

 

Quali rapporti intercorrono tra potere e formazione? Delle molteplici vie possibili per tentare di sviluppare un interrogativo così problematico eppure così rilevante, quella qui percorsa assume certamente un atteggiamento preliminare. Quello per il quale potere e formazione non possono che collocarsi, simmelianamente, entro la dimensione dell’“azione reciproca”. Vale a dire in una relazione dinamica che le vede coimplicarsi vicendevolmente, liberandole, così, tanto dalla dogmaticità del giudizio quanto dalla fissità della definizione. È, infatti, dalle articolazioni dell’esercizio del potere che può forse emergere un quadro meno avvezzo a sancire limiti o a legittimare prassi ma più attento a descrivere una fenomenologia dell’azione reciproca riconducibile a gesti, linguaggi, attitudini ed esperienze che, più o meno sotterraneamente, finiscono per dare forma ai legami tra soggetto e mondo.

La domanda alla quale si è fatto riferimento, allora, non riguarda tanto l’inesorabilità o la strumentalità del potere sub specie educationis, ma le
condizioni e i significati del suo manifestarsi. Di qui un’analisi che individua e approfondisce alcuni nessi. Quello tra potere e mutamento  sociale, per il quale a dirimere fin da subito alcune decisive questioni di merito è la voce di Luciano Gallino, che descrive superfici e profondità di un panorama, non solo italiano, in cui lavoro,  istruzione e tecnologia diventano rivelativi parametri di comprensione del presente. Quello tra scuola e realtà giovanile, per il quale Fulvio Papi interpella la distanza – storico-legislativa, istituzionale e culturale – della scuola attuale dai suoi stessi destinatari, sia sul piano degli strumenti sia sul piano delle funzioni. Quello, ancora, tra educazione e fenomeno organizzativo, per il quale Elena Madrussan intercetta nel modello culturale dell’agenzia produttiva un potenziale congegno deformante dell’idea stessa di educazione. Relazioni e distanze che, precipitando nella medesima esperienza soggettiva, Claude Burgelin vede incardinate nel percorso compiuto dall’insegnamento della letteratura nella scena accademica e culturale francese dell’ultimo quarantennio.

Ma è pur vero che la ricerca dei luoghi eterocliti nei quali le forme del potere dispiegano silenziosamente la loro forza performativa sono stati
rintracciati, lungo il secolo scorso e in ambiti diversi, da intellettuali e testi che hanno impresso alla riflessione culturale l’esigenza, sempre più
avvertita, di corrispondere ad una lettura disincantata e accorta dell’attualità. Magistrali in tal senso sono state le pagine della Dialettica dell’Illuminismo, ripercorse da Gianluca Giachery guardando soprattutto al rapporto tra la crisi della soggettività e la normatività del potere; quelle di Massa e potere di Elias Canetti, rilette da Silvano Calvetto nella chiave di una feconda ‘pedagogia dell’impensato’; e quelle di Mythologies – ma non solo – di Roland Barthes, nelle quali Gianmarco Pinciroli rileva il problema della significazione quale espressione del legame tra linguaggi e potere. Senza dimenticare lo straordinario contributo che uno scrittore geniale e visionario come Aldous Huxley aveva saputo dare al dibattito culturale del suo tempo, dando il via a quella letteratura distopica che oggi, dalle pagine di Archivio della memoria, viene a chiedere conto delle nuove forme di condizionamento.

Certo: siffatta proposta tematica non può esaurirsi con questo numero, che tenta di accogliere, in prima battuta, un’urgenza educativa, culturale e sociale dalle molteplici declinazioni. Per questo la Redazione di Paideutika e il suo nuovo Direttore stanno lavorando ai prossimi numeri con rinnovato impegno e nel solco di una salda continuità culturale. E lo stanno facendo con il decisivo contributo dei Consulenti scientifici, di ITER, di Fulvio Papi, del Comitato dei Lettori, dell’Editore, che, tutti, hanno ribadito senza esitazione la loro partecipata collaborazione. Per i lettori della Rivista, per il suo Fondatore.

Elena Madrussan

In riferimento al peer review process Paideutika ringrazia Gabriella Bosco (Università di Torino), 
Enza Colicchi (Università di Messina), Alessandro Mariani (Università di Firenze), Paolo Mottana (Università di Milano-Bicocca), Gabriele Scaramuzza (Università Statale di Milano),
Ignazio Volpicelli (Università di Roma Tor Vergata) che, con responsabilità e competenza,
hanno valutato i contributi pubblicati nel 2011.

 

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